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Aterosclerosi e rischio di tromboembolismo venoso: il ruolo della terapia antiaggregante

A cura di Marta F. Brancati

Cavallari I, Morrow DA, Creager MA, et al. Frequency, Predictors, and Impact of Combined Antiplatelet Therapy on Venous Thromboembolism in Patients With Symptomatic Atherosclerosis. Circulation 2018;137:684-692.

 

Studi osservazionali hanno suggerito una possibile associazione fra l’aterosclerosi e il rischio di tromboembolismo venoso, rischio che peraltro parrebbe ridotto dalla terapia antiaggregante con aspirina.

Nello studio che presentiamo sono stati analizzati, in cieco, gli eventi tromboembolici venosi sintomatici occorsi nei pazienti arruolati in due trial randomizzati, il TRA2P-TIMI 50 e il PEGASUS-TIMI 54. Si tratta di trial sulla terapia antiaggregante per la prevenzione di eventi ischemici in pazienti con aterosclerosi sintomatica (il primo riguarda il vorapaxar, il secondo il ticagrelor).

 

Su 47.611 pazienti – il follow-up è stato di 3 anni – ci sono stati 343 eventi (0.7%). Il rischio era indipendentemente associato ad alcune variabili quali l’età, la massa corporea, la polivasculopatia, la presenza di BPCO e di neoplasie. È stato osservato, inoltre, un aumento progressivo del rischio in funzione del numero dei distretti vascolari colpiti da aterosclerosi sintomatica (come illustrato nella figura qui sotto).

 

Peraltro, una terapia antiaggregante potenziata (con vorapaxar o ticagrelor) ha ridotto significativamente il rischio del 29% rispetto alla singola antiaggregazione (dallo 0.93% allo 0.64% a 3 anni; HR 0.71; IC 95% 0.56–0.89; p=0.003).

 

È chiaro che le piastrine e la coagulazione costituiscono sistemi “integrati” fra loro. Non dimentichiamo che in passato sono state tentate terapie con anticoagulanti nei pazienti con infarto miocardico, prima che si dimostrasse il maggior beneficio dell’antiaggregazione, così come per anni è stata prescritta l’aspirina in pazienti con fibrillazione atriale, prima che si chiarisse il maggior beneficio dell’anticoagulazione. E precedenti trial hanno dimostrato che la doppia antiaggregazione è in grado di ridurre il rischio di ictus in pazienti con fibrillazione atriale, seppur in misura minore rispetto agli anticoagulanti. Dunque è plausibile ipotizzare un effetto dell’antiaggregazione anche sul tromboembolismo venoso.

Questi dati indicano una possibile relazione fra il “carico” aterosclerotico e il rischio di tromboembolismo venoso, e suggeriscono un potenziale beneficio dell’antiaggregazione. Gli autori concludono auspicando che il tromboembolismo venoso possa essere incluso tra gli endpoint dei trial sulla prevenzione secondaria in pazienti con aterosclerosi.

Marta F. Brancati
Marta F. Brancati
Dirigente medico di I livello, UO Emodinamica, Ospedale degli Infermi, ASL BI - Biella

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