i margini della scena
13 Novembre 2019un’eredità
20 Novembre 2019Ho trovato tante belle cose, tante bellissime parole in questi giorni sul web, talmente tante che avevo pensato di comporre un lungo elenco di collegamenti, di legami, di link, una fila come anelli di una catena e di proporli tutti, uno dopo l’altro, come una schiera di soldatini che marcia verso un fronte misterioso, che erano magari le vostre personali domeniche mattina, il vostro desiderio di leggere qualcosa, la vostra noia di non sapere come e quando farlo, perché non volevo rinunciare a niente, a nessuno di questi articoli, perché tutti mi paiono importanti, orme di una strada che avrà pure una sua destinazione.
E avevo messo quindi in ordine mentale un articolo su Sciascia e Primo Levi, un altro su Leopardi, uno sulle città che stiamo distruggendo, un’intervista ad Aramburu, una splendida sintesi della vita amorosa di Marcel Proust, un ricordo vivo e malinconico di una madre innamorata dei libri, una strana confessione di un monaco contemporaneo, il solito racconto di cosa e di come scrivesse e di chi fosse Italo Calvino, una descrizione livida del Caucaso, e molte altre cose ancora, tutte in fila, utili, importanti, stimolanti, preziose. Ma poi.
Ma poi ho riconosciuto la voce di un poeta. I suoi versi. E riconoscere la voce di un poeta accade ogni tanto, poche volte, starei per dire poche volte nella vita (lo dico per me; a me è successo così). E allora ho dovuto rinunciare a tutto (ma prometto ritagli e altri post, nei giorni che ci attendono) e lasciare spazio soltanto a questa voce, che apre mondi e ce li lascia davanti squadernati, è questo che fanno le voci dei poeti.
Si chiama Mariangela Gualtieri (ne ho parlato già altre volte) e oggi dice così:
Vedo divinità ovunque e se penso alla divinità, non posso limitarla all’umano. Io scrivo per un ordine che non si discute; se non lo faccio sto male, sono infelice. Ma non scrivo perché sto male, anzi, quasi mi vergogno di cantare il dolore, come se già ce ne fosse tanto e io aggiungessi la mia parte. Io vorrei, fra le tante aspirazioni, avere una voce consolante, non consolatoria che è parola furba e ipocrita, ma consolante come una voce che nel buio del mondo calma un neonato che piange, o due mani che lo prendono in braccio, se lo appoggiano al petto, lo scaldano, lo cullano. Perché senza questo poco quel neonato morirebbe, o crescerebbe deforme. Ci sono poeti che si vergognano di essere consolanti. Io credo invece che tutti – soprattutto i poeti – dovremmo farci maggiormente materni, uomini e donne, e cominciare ad avere cura di tutto, come se tutto fosse stato partorito da noi, fosse parte di noi. Anche se è vero proprio il contrario: tutto ci tiene in vita e potrebbe benissimo fare a meno di noi, anzi, senza la nostra sgraziataggine, procederebbe più armonicamente.
E le sue poesie sono per esempio questa (trovate tutto qui):
Non si cuce più il nome alla
sua voce. Il sangue riconosce
più larga parentela che traluce
fra squame e venature e linfe
e pietre e fuoco e cadute e colpi
d’ala piccola, d’ala grande,
una balbuzie di foglie – un incompreso
abito cucito a poco a poco nella profonda
sete, nelle stellate ondine increspate
giace un non sapere che riposa, che nutre.
Ce ne sono altre, in tutti i suoi libri. Li trovate sul catalogo Einaudi (quello che si intitola Bestia di gioia è francamente bellissimo), potete provare ad ascoltare la sua voce. È un esercizio difficile, questo. (Ascoltare la voce di un poeta.) Forse è anche uno dei pochi che valga la fatica di essere fatto, ogni volta.