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Anticoagulanti diretti in pazienti con fibrillazione atriale sottoposti a cardioversione.

Pubblichiamo uno slide-kit a cura del dott. Carmelo La Greca sull’uso degli anticoagulanti diretti in pazienti con fibrillazione atriale sottoposti a cardioversione.

Perché parlare di anticoagulanti diretti nella cardioversione della fibrillazione atriale?
Innanzitutto, perché i pazienti sottoposti a cardioversione sono a elevato rischio tromboembolico: il rischio tromboembolico nei 30 giorni che fanno seguito alla cardioversione è del 5-7% in pazienti non anticoagulati, e l’80% degli eventi avviene nella prima settimana.
Per intenderci, il rischio tromboembolico nella prima settimana post-cardioversione è paragonabile a quello annuale di pazienti con fibrillazione atriale non valvolare a rischio moderato.(1)

Come ridurre questo rischio? Grazie a una adeguata anticoagulazione. Anticoagulando pre-, durante e post- cardioversione, possiamo ridurre il rischio a meno dell’1%. L’importanza di una adeguata anticoagulazione è resa anche se valutiamo quali siano i maggiori predittori di eventi tromboembolici post-cardioversione. Né il CHADS2, né il CHA2DS2VASc si sono dimostrati predittori efficaci, così come un ecotransesofageo pre-cardioversione libero da trombi non si è dimostrato in grado di escludere eventi tromboembolici post-cardioversione. E questo perché la fisiopatologia responsabile degli eventi tromboembolici post-cardioversione è quella dello stunning atriale, ed è quindi differente da quella valutata da strumenti come il CHADS2 o il CHA2DS2VASc, e l’esclusione di trombi in auricola pre-cardioversione, non esclude la formazione di trombi post-cardioversione. Il singolo maggiore fattore di rischio per tromboembolismo è l’inadeguata anticoagulazione.(2,3)

E, di conseguenza, una adeguata anticoagulazione è quello di cui abbiamo bisogno; che significa non solo disporre di farmaci efficaci, ma anche di adeguati protocolli di somministrazione. Perché non è importante solo l’efficacia del farmaco, ma anche che la durata dell’anticoagulazione sia corretta.

Cosa c’è di meglio, per valutarne l’efficacia, se non valutare quanto siano in grado di risolvere i trombi in auricola? Questo era lo scopo dello studio XTRA, studio multicentrico, open label, a singolo braccio, che ha reclutato 60 pazienti con fibrillazione atriale non valvolare o flutter atriale, con riscontro all’eco transesofageo di trombi in atrio sinistro/auricola sinistra. I pazienti sono stati sottoposti a terapia con rivaroxaban 20 mg (15 mg in caso di dose ridotta) per sei settimane, e quindi rivalutati mediante eco transesofageo. Pur se una riduzione/risoluzione del trombo è stata osservata nel 60.4% dei casi, una vera e propria risoluzione è stata osservata nel 41.5% dei casi, dato che, per stessa ammissione degli autori, è relativamente inferiore rispetto a quanto atteso, soprattutto se paragonato con il 62.5% di risoluzione del CLOT-AF, registro retrospettivo basato sui dati di 150 pazienti sottoposti a terapia con VKA per 3-12 settimane.

E allora? Non sono efficaci? Gli autori giustificano in parte il dato, sottolineando come ¾ dei pazienti fossero naïve per la terapia anticoagulante, e che molti erano affetti da fibrillazione atriale permanente/persistente, e quindi almeno una parte di quei trombi era costituita da trombi “vecchi”. E, in effetti, in termini di capacità di mantenere atrio sinistro e auricola sinistra “puliti”, altri lavori sembrano confermare l’efficacia degli anticoagulanti diretti.(5)

E se vogliamo valutarne davvero l’efficacia, dicevo, cosa c’è di meglio che valutarne la capacità di risolvere trombi in atrio sinistro/auricola sinistra? Ecco, di meglio c’è valutare quanto gli anticoagulanti diretti siano in grado di prevenire gli eventi tromboembolici, e paragonarli allo standard of care. A questo proposito, i primi dati sono stati ottenuti dalle sotto-analisi degli studi registrativi. Nel RELY, ad esempio, è stato eseguito un gran numero di cardioversioni (1983 cardioversioni in 1270 pazienti); era fortemente incoraggiato l’uso dell’eco transesofageo pre-cardioversione, e la maggior parte dei pazienti (76.4% nel braccio dabigatran 150 mg x2, 79.2% nel braccio dabigatran 110 mg x2, 85.5% nel braccio warfarin) era stata sottoposta ad almeno 3 settimane di terapia anticoagulante pre-cardioversione. Ovviamente lo studio non era potenziato per questo obiettivo, e, peraltro, la bassa percentuale di eventi non permetterebbe analisi di questo tipo. Si può però dire che, confermando sicurezza del consolidato approccio con warfarin alla cardioversione, l’analisi post-hoc non ha mostrato differenze fra i tre bracci in termini di efficacia e sicurezza.(6)

I dati derivanti dagli studi registrativi, nel caso degli altri anticoagulanti, non erano così abbondanti, e quindi non stupisce la scelta di produrre studi mirati allo scopo, nei quali è stato comparato l’anticoagulante diretto allo standard of care. Il primo di questi lavori è stato l’XVERT, studio prospettico, randomizzato, che ha reclutato pazienti con fibrillazione atriale di durata ³48 ore, randomizzati con rapporto 2:1 a trattamento con rivaroxaban 20 mg (15 mg in caso di dose ridotta) o inibitori della vitamina K, distinguendo fra cardioversione precoce o ritardata sulla base della scelta dell’investigatore. La cardioversione ritardata prevedeva almeno 3 settimane di anticoagulazione (fino a un massimo di 8 settimane) pre-cardioversione, seguite da 6 settimane post cardioversione; mentre la cardioversione precoce prevedeva 1-5 giorni di anticoagulazione (il farmaco doveva essere somministrato almeno 4 ore prima della cardioversione), anche in questo caso seguite da 6 settimane di anticoagulazione post-cardioversione.(7)

Disegno molto simile, quello dell’ENSURE-AF: anche in questo caso sono stati reclutati pazienti con fibrillazione atriale di durata ³48 ore, randomizzati con rapporto 1:1 a trattamento con edoxaban 60 mg (30 mg in caso di dose ridotta) o enoxaparina/warfarin; tuttavia in questo caso la randomizzazione è stata fatta per ciascuno dei diversi gruppi (per tipo di cardioversione – preceduta da eco-transesofageo o non preceduta da eco-transesofageo-, per precedente esperienza di anticoagulazione – esperienti o naïve -, per dose di edoxaban somministrata – 60 mg o 30 mg -, e per regione di provenienza). L’approccio preceduto da eco-transesofageo prevedeva una cardioversione entro 3 giorni dalla randomizzazione (ma la cardioversione poteva avvenire anche il primo giorno), seguita da 28 giorni di anticoagulazione, mentre l’approccio non preceduto da eco transesofageo, prevedeva almeno 21 giorni di terapia anticoagulante pre-cardioversione, seguiti da 28 giorni di terapia anticoagulante post-cardioversione.(8)

Infine, l’EMANATE, che, con disegno forse meno strutturato rispetto ai primi due, si focalizza sui pazienti naïve, e quindi sui pazienti con fibrillazione atriale non valvolare sottoposti a terapia di anticoagulazione da £ 48 ore. È corollario di ciò il fatto che l’EMANATE è l’unico studio in cui sono stati reclutati pazienti in fibrillazione atriale con esordio £ 48 ore. Era prevista una randomizzazione 1:1 ad apixaban o eparina/VKA, e anche in questo caso era prevista la possibilità di una cardioversione precoce, che prevedeva venissero somministrate almeno 5 dosi di farmaco prima della procedura o un bolo di apixaban di 10 mg (5 mg in caso di presenza di criteri di riduzione) due ore prima della procedura. La cardioversione poteva avvenire sino a 90 giorni dopo la randomizzazione, ed era seguita sempre da 30 giorni +/- 7 giorni di terapia anticoagulante.(9)

In tabella 1 troviamo riassunte le caratteristiche dei tre studi. Come già accennato, mentre XVERT e ENSURE-AF si concentrano su pazienti con fibrillazione atriale da più di 48 ore, l’EMANATE è l’unico studio ad aver arruolato anche pazienti con fibrillazione atriale di durata inferiore alle 48 ore (in una quota di circa il 30%). La definizione di naïve alla terapia anticoagulante era differente nei tre studi, ma possiamo dire che circa il 60% dei pazienti nello studio XVERT era “non esperiente” (<6 settimane di terapia anticoagulante), circa il 27% dei pazienti nell’ENSURE-AF non aveva assunto terapia anticoagulante nei 30 giorni precedenti, mentre l’EMANATE si è concentrato proprio sui pazienti naïve (tutti i pazienti reclutati non avevano assunto terapia anticoagulante nelle 48 ore precedenti la randomizzazione).

Quel che mi preme sottolineare è che tutti gli studi sono studi descrittivi, e nessuno è stato potenziato per testare alcuna ipotesi. Nonostante questo, è possibile affermare che gli anticoagulanti diretti testati possono essere proposti come alternativa alla terapia standard, in considerazione della bassa percentuale di eventi tromboembolici e la concomitante sicurezza (in più, XVERT e ENSURE hanno dimostrato minori tempi di cardioversione in pazienti in terapia con anticoagulanti diretti).(7-9) In particolare, se usati con approccio mutuato dalla terapia con VKA, e quindi con trattamento di almeno 3 settimane prima della cardioversione, seguiti da 4 settimane di terapia post-cardioversione, gli anticoagulanti diretti non appaiono inferiori alla terapia standard. Abbiamo poco, invece, sulla fibrillazione atriale con esordio <48 ore, ma dati di farmacologia e pochi dati di outcome (derivanti esclusivamente dall’EMANATE) suggeriscono un utilizzo sicuro. Nessuna differenza è stata dimostrata tra cardioversione precoce e tardiva, ma nell’ambito della cardioversione precoce non è chiaro il numero minimo di dosi di anticoagulante diretto necessario prima di una procedura sicura, così come non è chiaro il tempo che debba intercorrere fra l’assunzione del farmaco e la cardioversione. E si tratta di dubbi di non poco conto, dato che, come abbiamo detto, il singolo maggior rischio di tromboembolismo è l’inadeguata anticoagulazione.

I deficit di evidenza si riflettono non a caso nei diversi approcci proposti dalle diverse società scientifiche. Sull’approccio da adottare in pazienti con fibrillazione atriale di durata > 48 ore ci sono pochi dubbi, soprattutto se si decide per una cardioversione tardiva. In questo caso tutte le linee guida sono d’accordo: terapia anticoagulante tre settimane prima della cardioversione e quindi quattro settimane dopo, ed è contemplata la possibilità di somministrare anticoagulanti diretti; apparentemente concordi anche nel caso che in questi pazienti con fibrillazione atriale si decida per una cardioversione precoce: in questo caso sono comunque previste 4 settimane di terapia anticoagulante post-cardioversione, e tutte le linee guida concordano nel dire che la terapia anticoagulante (che prevede anche in questo caso la possibilità di un anticoagulante diretto) vada somministrata il prima possibile rispetto alla cardioversione. Ma non sono adeguatamente specificati i tempi: quanto prima della cardioversione? I pochi dati sugli anticoagulanti diretti nella cardioversione di fibrillazione atriale di durata <48 ore fanno sì che le indicazioni sulla possibilità di utilizzo di questi farmaci in questo setting siano varie, con scarse specifiche in termini di tempo tra assunzione dell’anticoagulante e cardioversione, e diversi comportamenti indicati sul post-cardioversione.

In attesa di maggiori dati, suggerirei l’approccio indicato dalla flow chart mutuata dal consensus EHRA 2018: in caso di pazienti già in terapia anticoagulante da ³3 settimane, si può procedere a cardioversione, salvo che non si sia incerti sulla aderenza del paziente (nel qual caso, un eco transesofageo può dirimere ogni dubbio); in caso di paziente non in terapia anticoagulante o in terapia anticoagulante da <3 settimane, bisogna distinguere fra fibrillazione atriale di durata ³48 ore e fibrillazione atriale di durata < 48 ore. Nel primo caso, il paziente va incontro a terapia anticoagulante con anticoagulante diretto per 3 settimane pre-cardioversione, o, nel caso si opti per una cardioversione precoce (preceduta da eco transesofageo), va sottoposto a terapia anticoagulante con anticoagulante diretto almeno 4 ore prima della cardioversione, o 2 ore in caso si somministri apixaban in dose di carico. In caso di fibrillazione atriale di durata < 48 ore, si potrà procedere a cardioversione direttamente: pur in presenza di pochi dati a sostegno è considerata fattibile la sostituzione di eparina a basso peso molecolare con anticoagulanti diretti, da somministrare almeno 4 ore prima della cardioversione, o 2 ore, in caso si somministri apixaban in dose di carico.

La cardioversione di pazienti in fibrillazione atriale richiede una adeguata tromboprofilassi, in considerazione dell’elevato rischio tromboembolico a essa associato. La somministrazione di inibitori della vitamina K pericardioversione (3 settimane prima della cardioversione e 4 settimane dopo) ha dimostrato di ridurre la percentuale di eventi tromboembolici a meno dell’1%. Gli anticoagulanti diretti, se usati in maniera analoga, si sono dimostrati altrettanto efficaci. Tuttavia, non è ancora stata indagata l’efficacia di una breve anticoagulazione pre-cardioversione, così come non è stata ancora adeguatamente indagato il trattamento con anticoagulanti diretti nella fibrillazione atriale di durata <48 ore.

 

 

Carmelo La Greca
Carmelo La Greca
Dirigente medico di I livello, UO di Cardiologia, Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero, Brescia

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