Domani mattina andrò a scuola, mi siederò davanti a uno studente di 18 o 19 anni che conosco già da quattro anni, indosserò la mascherina chirurgica che mi sarà stata fornita e, come da istruzioni ministeriali, chiederò allo studente di commentare una poesia. E lo studente comincerà a commentare, dirà cose intelligenti (ho studenti molto bravi, quest’anno) o forse meno intelligenti (ho studenti ansiosi, come ogni anno, ma ogni anno un po’ di più) ma comunque parlerà di poesia, di versi, magari di enjambements, probabilmente di rime e di figure di suono (l’allitterazione…), forse anche di paronomasie e annominazioni, di metafore e disseminazioni foniche, non so. E non saprà in quel momento (e non lo saprò nemmeno io, in quel momento) la cosa più importante di quel gesto: che sarà l’ultimo.
Che per tutto il resto della sua vita non commenterà più nemmeno una poesia, forse nemmeno più la leggerà, chissà quanto vagamente si ricorderà di certi versi che gli sono piaciuti o che lo hanno annoiato… Ci sono gli studenti che studieranno lettere, è vero: ma quelli sono pochi, quelli per ora non contano: per tutti gli altri sarà davvero l’ultima volta. E questo fatto è così rilevante, secondo me, che non sappiamo che significato dargli, restiamo interdetti, pensiamo che però forse, poi cambiamo discorso, la mascherina è soffocante, l’estate sarà torrida.
Ma la poesia resta. Restano i versi, nella mia testa, nelle aule scolastiche sanificate, resta qualcosa che non si riesce a dire. E l’ho già così tante altre volte ripetuto in questi anni che mi stanco da solo a sentirmelo ridire: resta un’essenza non sostituibile che la poesia indubbiamente è, che non smette di essere anche se nessuno dei miei bravi studenti di quest’anno ne parlerà mai più (di lei, della poesia).
E oggi possiamo forse avvicinarci per un istante a quest’essenza indefinibile, grazie a uno strano gioco che hanno costruito Laura Pugno e Giulio Mozzi, che è un gioco che parla di poesia e di poeti, e che potete trovare anticipato qui. E, se davvero andate a leggere, come dovreste, ci trovate alcuni spunti molto suggestivi che, come a me, vi faranno venire voglia di comprare il loro libro, che esce dopodomani, ma soprattutto ci trovate un’idea che forse è una possibile risposta alla domanda che avrò in testa io domani mentre farò commentare versi a studenti con cui ho passato gli ultimi quattro anni della mia vita e di cui già sento un po’ di nostalgia. E la risposta possibile è questa:
Il filosofo Nassim Nicholas Taleb, nel saggio Il cigno nero, ci parla dell’«ignoto ignoto», ossia ciò che non è semplicemente “ignoto”, ma di cui non sappiamo nemmeno che è. Per esempio: il bambino vive in un mondo in gran parte magico, e di fronte a qualcosa di inatteso o sorprendente si domanda quale magia ci sia sotto. Quando capirà che non c’è nessuna magia, farà un «cambiamento di paradigma», e scoprirà che l’ignoto al quale rivolgeva prima la sua immaginazione non esiste; l’ignoto sta altrove. Se spesso consideriamo lo scrivere poesia un tentativo di penetrare nell’ignoto, ricordiamoci che questo ignoto ha dei confini, forse angusti, al di là dei quali si estende il territorio dell’ignoto ignoto.
C’è dunque forse questo, alla fine di ogni verso di ogni poesia, prima dell’enjambement e del verso successivo che riparte da capo, c’è questo: c’è una finestra, un balcone, un oblò, uno spazio, una ferita, un varco, un buco da cui possiamo sporgerci e vedere l’ignoto ignoto, ciò che non sappiamo di non sapere, ciò che non possiamo immaginare di non sapere, ciò che è meglio che nemmeno ci ricordiamo di non sapere. Rimaniamo lì per qualche istante, appesi alla ringhiera di quelle sillabe, il verso finisce, c’è il nulla, il bianco della pagina, il salto, il vuoto…
Poi l’esame finisce, comincia la vita, sarete presto lontano da qui, sarete bravissimi, la poesia non muta nulla, ma non smette di esistere.