il paradiso che cerchiamo
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6 Maggio 2021Le domande semplici, in letteratura, esigono sempre risposte complicate. Penso per esempio alla domanda che ho provato a farmi qualche giorno fa, su cosa sia davvero un libro. O a quella che da anni pongo ai miei studenti, ricavandone silenzi e tentennamenti (anche miei), quando chiedo che cosa sia, in una poesia, un verso.
Ma mi pare che anche in cardiologia funzioni così: e che le domande semplici dei vostri pazienti («Perché mi è venuto l’infarto?», «Cosa posso fare dopo che ho avuto l’infarto?», «Fino a quando dovrò prendere questo anticoagulante?», «Fino a quando avrò paura?») facciano scattare automaticamente risposte complicate di voi medici, perché risposte troppo semplici sarebbero, ahimè, risposte sbagliate.
Ho pensato a queste domande, letterarie e cardiologiche, ieri mattina, quando per caso mi sono imbattutto in un’altra domanda a cui cercava di rispondere un post che parlava di un libro che quella domanda poneva (avete già capito: è una risposta complicata, anche questa). La domanda è «A cosa serve la storia dell’arte?» e il libro che la pone a noi è questo. Ma soprattutto qui trovate il post che ne parla e la cui lettura potrebbe interessarvi e piacervi come è piaciuta a me. Magari per arrivare a riflettere su questa considerazione e non dimenticarsela troppo facilmente:
Niente è un bene di per sé. Un dipinto di Raffaello è un bene solo quando lo proietti nel confronto vivo con la tua esperienza… La grande insidia è questa: se si esclude l’Io, cioè l’esperienza della persona, un bene culturale rimane solo un insieme di sassi, una bandiera, tre piante curate, una cosa graziosa messa in un museo. Il patrimonio è vivo solo nel momento in cui lo incontri e quell’incontro aumenta il senso critico della tua vita, cioè quando, alla fine, la tua vita e la consapevolezza della tua vita ne sono arricchite, potenziate
In qualche modo, mi sembra, sono le stesse cose che provavo a dire l’altro giorno, parlando dei libri, della loro natura di oggetti di consumo, del pericolo che non siano altro che quello. Della fortuna per cui in effetti non lo sono.
Ma mentirei se vi dicessi che sono partito dai libri o dalla teoria della letteratura. Sono partito da un luogo, in realtà, anche stamattina, come spesso mi accade quando provo, tra me e me, a farmi delle domande sapendo che non avrò mai le risposte. Sono partito da una città che amo e in cui faccio sempre molta fatica a tornare, perché la trovo svilita, prostrata, sfinita, abbattuta, invasa, paralizzata e barbarizzata. Sono partito da Firenze, descritta pochi giorni fa così:
Firenze senza i turisti è una città monca, che non potrebbe sopravvivere. Ma ora i turisti sono evaporati: sette turisti e mezzo ogni dieci, dicono le statistiche, erano internazionali. E chissà quando torneranno. Molti, stranieri o italici, sono turisti ciabattoni di giornata (non è un’offesa, è una citazione letteraria degli Alpinisti ciabattoni di Achille Giovanni Cagna), i mangia-e-fuggi, quelli che si mettono in coda agli Uffizi e poi si mettono in coda all’Accademia per vedere il David, poi si fanno il selfie su Ponte Vecchio o sul campanile di Giotto e finiscono la giornata in coda per una pizza o un gelato. Poi ripartono a bordo dei loro torpedoni, per rimettersi in coda in altri luoghi con altri loro consimili. A Firenze li odiano, ma non possono fare a meno di loro. Il turismo ciabattone è la mano che uccide la città, ma al tempo stesso la nutre.
Anche questa, mi pare, è una risposta alla domanda semplice: «A che cosa serve la storia dell’arte?». Ed è una risposta che ci chiede di porci un’altra domanda, forse ancora più semplice e più complicata, sicuramente urgente e ineludibile: «Deve servire a qualcosa, la bellezza?»
Non lo so, immagino sia complicato. Ma spero che qualcuno, anche tra quelli che si occupano di patrimonio artistico e di monumenti e di quadri e musei, abbia nel frattempo cominciato a pensarci. Altrimenti, ho a volte l’impressione, Firenze, Venezia, San Gimignano, Ortigia, il posto splendido in cui vivo e che ora guardo dalla finestra, tutti questi luoghi rischiano di essere sintomi, il segno di quello che l’Italia, il nostro paese, può diventare entro pochi decenni: un intero paese snaturato, paralizzato dalla sua bellezza.
Si può fare qualcosa per evitarlo? Ecco, è un’altra domanda semplice.