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a riveder le stelle

Se aveste voglia di dedicarvi, nelle prossime settimane, a un’occupazione interessante, c’è un libro di cui potreste occuparvi, cioè provare a leggere, secondo me. È un libro con un titolo leopardiano (anzi, a proposito, questo è l’anno dell’Infinito, non ce lo siamo senz’altro dimenticati: io un’occhiata ai Canti di Leopardi, oppure alle Operette morali, gliela darei, quest’estate, mi sembrerebbe quasi doveroso e senz’altro molto più divertente di quanto immaginate, soprattutto nel caso delle Operette morali…); ma il libro con titolo leopardiano che vi sto suggerendo non ha apparentemente niente a che fare con la poesia e la letteratura, anzi, è un libro che addirittura parla di astronomia (la quale astronomia, però, lo sapete già, era uno dei maggiori e più radicati interessi di Giacomo Leopardi, che scrisse una bella Storia dell’astronomia quando aveva solo 15 anni ­ noialtri cosa facevamo a 15 anni? ­, tanto che ci viene il fondato sospetto che a Recanati, da ragazzo, Giacomo abbia passato molto del suo tempo a guardare la luna, a farle domande ­ «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai?» ­ e che da quegli sguardi sia nata un po’ della sua vocazione poetica, dalle stelle da cui è nato proprio tutto); ma lo sguardo di Leopardi, sapete già anche questo, non si fissava solo sulla luna e sulle stelle: in realtà c’erano un colle e una siepe e c’era la possibilità, anche a Recanati, anche in quella misera e arretrata periferia dello Stato della Chiesa (non c’è posto al mondo da cui tu non possa guardare e interrogare le stelle, ci dice Giacomo Leopardi in tutta la sua vita di poeta), la possibilità di immaginare l’oltre, la distanza, l’ultimo orizzonte… Ecco, è questo il titolo che volevo suggerirvi: L’ultimo orizzonte.

È un libro di astronomia, lo ha scritto Amedeo Balbi (che è infatti astronomo di valore) in un italiano felicemente chiaro e leggibile, e ci racconta cosa siamo riusciti a vedere delle stelle nell’ultimo secolo, fino a dove si sia spinto il nostro sguardo (e quello di Leopardi), cos’altro ci rimanga da cercare di guardare e quindi, per ora, da immaginare, leopardianamente immaginare. Un libro bello e interessante, che non fa della scienza né una verità definitivamente raggiunta né un sapere esoterico e distante, ma anzi lo avvicina alle nostre domande, agli interrogativi umani di sempre («l’universo è finito o infinito? Lo spazio e il tempo hanno avuto un inizio, e avranno una fine? Le leggi di natura potevano essere diverse? Esistono altri universi oltre il nostro?»), lo fa diventare amico e fratello dello sguardo quindicenne di Giacomo Leopardi che interrogava gli astri di Recanati («Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai?») e provava a immaginare un futuro che non poteva sapere. E anche questa è forse una delle ragioni del titolo bellissimo di questo libro così utile.

Ma se aveste più tempo di quello che io suppongo e magari non vi bastasse la poesia di Leopardi (ma davvero c’ è qualcuno a cui la poesia di Leopardi non basta?) c’è un altro poeta di cui mi sono recentemente un po’ innamorato (io a 15 anni mi innamoravo dei poeti, per esempio…): si chiama Valentino Zeichen ed è morto pochissimi anni fa, in questi primi giorni di luglio. E oggi, quasi per caso, mi è capitato sott’occhio un vecchio articolo di Edoardo Camurri che ne parla in occasione della sua scomparsa, e l’ho trovato un articolo splendido e mi sono un po’ dispiaciuto perché non ho trovato un link completo (c’è nella sua pagina facebook, ma non so se riuscite a vederlo) ma solo uno parziale (qui, nientemeno che L’Osservatore Romano, a ciascuno il suo). Ma pur nella sua parzialità il riassunto riporta la più bella delle considerazioni di Camurri su Zeichen, il cui cognome significa in tedesco «cartello» che Camurri associa al Verkehrszeichen, il «cartello stradale». Per scrivere infine così:

Ma, a pensarci bene, questo è proprio quello che deve fare un poeta che sia anche un Verkehrszeichen: indicare una strada, non avere incertezze, essere presente e preciso quando ne hai bisogno. Il cartello stradale non consegna messaggi edificanti o lamentele o appelli (cioè buona parte della frenetica attività degli intellettuali), non è mai veicolo di opinioni; a discutere con un segnale stradale si passa infatti per scemi. Il destino di un cartello stradale è chiaro: o di essere ignorato — e al poeta scomparso è capitato a lungo — o di essere di importanza vitale. Zeichen è stato uno dei più grandi uomini che io abbia mai conosciuto. L’ho sempre immaginato come l’ultimo grande Cavaliere della tavola rotonda in perenne battaglia contro la Stupidità. La stanava dappertutto: in un editoriale, nella forma di una posata, nello sguardo di un filosofo, in una melanzana grondante d’olio, nell’incapacità degli uomini di abbandonarsi all’arte della conversazione, eccetera. Non gli ho mai sentito dire una cosa banale e, se si fa attenzione, questa è un’altra caratteristica dei segnali stradali.

Fino a concludere così, con una citazione di Zeichen stesso, un po’ magica come forse era lui:

Se di me sopravviverà un nulla / di qualche movimento / sarà il cognome / scritto all’estremo della tabella / di una linea d’autobus / a patto che un altro poeta / acconsenta che col suo nome / si intitoli l’altro capolinea / così da poterci scambiare / delle visite.

Il che mi conduce (come un cartello o come anche le stelle, ai naviganti per mare) a uno scambio di lettere tra poeti, a un lungo incrocio di parole, al libro più bello che ho letto in questi ultimi mesi (ringrazio l’amico che me lo ha segnalato): un carteggio quindi, ma anche la storia di un’amicizia, quella tra Franco Fortini e Giovanni Giudici, due tra i poeti più grandi che abbiamo avuto nel Novecento. Un libro che racconta una relazione bellissima, affettuosa e intellettuale, che è anche la storia della poesia italiana negli ultimi decenni, difficile ma bella. Ed è introdotta da un lungo saggio, altrettanto interessante e ben scritto, di Riccardo Corcione, che ha saputo mettersi al servizio di due uomini così più grandi di noi. Va letto tutto, questo libro; perché ci sono ancora libri grandi, che in qualche modo ci dicono che siamo nati anche noi dalle stelle che guardiamo, che abbiamo ancora un ultimo orizzonte da cercare e immaginare, e non ci sono quindi soltanto libri effimeri, da leggere tatticamente o poco più, come a volte invece ci è sembrato. E a un certo punto, tra le tante incantevoli cose che ci sono dentro questo scambio di lettere, ci troverete anche questa, scritta da Fortini, il quale dice di se stesso queste parole:

[il rimprovero più ricorrente che muovo agli amici è] di scarsa fermezza o coerenza, intellettuale o morale o politica. E me li ha fatti perdere quasi tutti. Perdita tanto più a me insoffribile quanto meglio conosco ormai che quasi ogni accusa è un’autoaccusa. Se oggi sono quasi solo e largamente odiato, ciò posso ascriverlo a onore; ma che gli amici mi lascino indifeso alla calunnia o allo scherno, questo rischia di dare troppa ragione al mio vizio di accusatore; preferirei aver torto. Ma ho quel che merito; almeno in questo. Con un gesto talvolta oratorio, quei miei «rimproveri» volevano evocare di fronte al oro e ame stesso una folla di giudici muti.

Ecco, appunto: «una folla di giudici muti». Nei momenti migliori della mia passione per la poesia, fin da quando avevo 15 anni, ho (dantescamente, in effetti) pensato alle stelle esattamente in questi termini, una folla di giudici muti. È un pensiero che mi ha, nel corso dei decenni, un po’ aiutato.

[L’Oblò si prende una pausa estiva, di qualche settimana. Ricomincerà a guardare il web dal suo minuscolo punto di vista intorno alla metà di agosto, forse un po’ prima. Cose da vedere e parole da leggere ce ne sono molte; la voglia di vederle, anche; la capacità di raccontarle, vabbè, si fa quel che si può, con l’aiuto degli amici.]

Davide Profumo
Davide Profumo
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