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2 Novembre 2016per non parlare di altro
6 Novembre 2016Se anche oggi vogliamo parlare di libri (ed è questo che più o meno facciamo, infatti, anche oggi), ecco, io credo che sia necessario, almeno per una volta, soffermarci su un filtro (una sorta di stretto passaggio in cui chissà quante sono le cose che si perdono…) su cui troppo raramente riflettiamo (a meno che non leggiate soltanto romanzi italiani, sia chiaro…).
Il filtro è l’uomo (ma più facilmente la donna) che ha avuto il compito di prendere il romanzo che aspettavamo con ansia malcelata da tanto tempo (il nuovo Safran Foer, oppure l’ultimo Franzen, o ancora il prossimo Houellebecq) e tradurlo per noi. Prendendone le parole e trasportandole nelle parole italiane che ora noi leggiamo, quasi dimenticando che la voce dello scrittore che amiamo è stato presa e rimodulata, riscritta, modificata, chissà quanto riadattata.
Ed è uscito in questi giorni un bellissimo post di Giacomo Papi che parla del mestiere e della fatica (assai poco pagata, lo devo dire) dei traduttori: di cui colpevolmente, troppo spesso, ci dimentichiamo, ogni volta che parliamo degli scrittori che amiamo, esaltandone lo stile e la magnifica prosa. Lo trovate interamente qui, ma ve ne lascio volentieri un estratto:
Nella classifica dei mestieri solitari, i traduttori si giocano il primo posto con i guardiani del faro. La voce di chi scrive, al di là della pagina, e i personaggi che ci vivono dentro, tengono compagnia al traduttore come le navi lontane e gli stridii dei gabbiani ai guardiani del faro. Navi e gabbiani sono più concreti; voci e personaggi – a volte, non sempre – più variegati e interessanti. Vivere in compagnia di parole altrui, da riscrivere da capo ma in cui scomparire, può provocare alienazione: anche perché gli scrittori, i personaggi e le idee spesso sono intensi, ossessivi o, peggio, noiosi. Passare la vita a scrivere cose scritte da altri, alimenta lo stupore che la scrittura esista e resista anche al di fuori della lingua in cui è nata, ma impone dolorosamente di scomparire dentro il proprio lavoro.
Ma so che potrebbe anche non bastarvi, tutto questo: un solo post, nemmeno un consiglio, nemmeno un film da andare a guardare…
Per cui ho una poesia da proporvi, in aggiunta. L’ha trascritta oggi sul suo blog Paolo Nori, ed è una bellissima poesia di Wisłavwa Szymbroska, che si intitola meravigliosamente In rime banali. Bel titolo. Però le rime non ci sono mai, né banali né altro: perché probabilmente il traduttore, da solo nella sua stanza, in un pomeriggio buio d’inverno, ha deciso per noi che non era possibile fare altrimenti, le rime non potevano starci, non si trovavano, toccava rinunciare a questo dettaglio per non rinunciare a tutto, per avere almeno la traccia della bellezza orginale della poesia (non lo so, sto provando a indovinare…)
Ecco, in ogni caso, ringraziamo la fatica e la solitudine di Pietro Marchesani, che è stato il guardiano del faro di questa poetessa polacca e delle sue rime banali, che noi, grazie di nuovo, possiamo leggere solo nelle sue parole. Ed ecco infine la poesia:
È una gran gioia: fiore accanto a fiore,
i rami degli alberi nel cielo puro,
e una più grande: domani è mercoledì,
arriverà una tua lettera di sicuro,
e ancora più grande: tema la busta,
è buffo leggere nelle macchie del sole,
e ancora più grande: solo una settimana,
ormai soltanto quattro giorni d’attesa,
e ancora più grande: la valigia
l’ho chiusa con mia vera sorpresa,
e ancora più grande: un biglietto
per le sette, sì, grazie signora,
e ancora più grande: nel finestrino
i paesaggi corrono velocemente,
e ancora più grande: è più buio, è buio,
stasera saremo insieme finalmente,
e più grande ancora: apro la porta,
e più grande ancora: quando lì davanti,
e ancora più grande: fiore accanto a fiore.
– Perché ne hai comprati cooosì tanti?