Distinzione tra necrosi ed infarto miocardico periprocedurale: troponina o Ck-Mb?
Marco Zimarino
Istituto di Cardiologia
Università “G. D’annunzio”
Asl di Chieti
Chris C.S. et al. With the “Universal Definition”, measurement of creatine kinase-myocardial band rather than troponin allows more accurate diagnosis of periprocedural necrosis and infarction after coronary intervention jam coll cardiol 2011;57:653-61
Introduzione
L’interventistica coronarica percutanea (PCI) ha come obiettivo il trattamento delle lesioni aterosclerotiche ostruttive dell’albero coronarico (Fig. 1A allegata ) attraverso un meccanismo combinato di dilatazione del lume e frattura della placca. Tale intervento, inizialmente eseguito con il gonfiaggio di un palloncino trasportato nel sistema cardiocircolatorio su una guida metallica fino al punto di massimo restringimento (Fig. 1B allegata), è oggi completato quasi sistematicamente dall’impianto di una maglia metallica (stent) in acciaio inossidabile che viene espansa sul palloncino e poi rimane come impalcatura interna della coronaria anche dopo lo sgonfiaggio e la rimozione del palloncino. I meccanismi attraverso i quali viene ottenuto tale guadagno del lume sono la distensione della membrana elastica esterna (EEM) e la frattura della placca che viene praticamente “estroflessa” nella EEM stessa (Fig. 1C allegata ).
Tale procedura, pur completata con successo attraverso il ripristino della pervietà vasale e la rimozione dell’ischemia, può tuttavia essere responsabile di un danno miocardico1. Studi con risonanza magnetica cardiaca (CMR) hanno identificato che il danno periprocedurale può verificarsi in prossimità della sede della PCI (in caso di dissezione del vaso o di occlusione di vaso di biforcazione) o a valle della lesione (prevalentemente causato da microembolizzazione di frammenti di placca)2. La quantità di materiale mobilizzato dipende dal volume della placca e dalla condizione clinica di base, con una maggiore predisposizione alla mobilizzazione distale delle placche responsabili di sindrome coronarica acuta (SCA) rispetto alle condizioni di malattia coronarica stabile3.
Con lo sviluppo di marcatori bioumorali di miocardiocitonecrosi estremamente attendibili – sia la creatin-chinasi (CK) isoforma MB nella determinazione della massa, sia la troponina (Tn) I o T – è stato possibile identificare un danno miocardico anche di dimensioni estremamente contenute. La Tn cardiaca (cTn) è specifica per il miocardio. Qualsiasi danno cellulare che alteri l’integrità della membrana cellulare del cardiomiocita può causare il rilascio in circolo di cTn (sia I che T), che attualmente sta sostituendo il CK-MB nella pratica clinica.
Il danno miocardico è causato anche dalla stessa tecnica della PCI. L’espansione ottimale dello stent viene ottenuta con gonfiaggi ad alta pressione in modo da garantire una distensione uniforme e ridurre il rischio sia di trombosi che di ristenosi a distanza. Tuttavia una strategia di impianto aggressivo di stent causa un maggior traumatismo di parete, mobilizza volumi maggiori di placca ed è associata ad un maggiore incremento dei marcatori di miocardiocitonecrosi dopo PCI. Tale strategia potrebbe però costituire un compromesso “sostenibile” in quanto l’ottenimento di un lume coronarico maggiore è anche associato ad una migliore sopravvivenza ad 1 anno4.
Dopo rivascolarizzazione i segni di danno miocardico sono frequenti: alterazioni dell’ST e dell’onda T si verificano nel 20% dei pazienti, pur se non è chiaro il loro significato prognostico5.
Tuttavia – a parità di incremento dei marcatori – la rilevanza prognostica dell’infarto post-PCI è inferiore di quello spontaneo, e ciò può essere dovuto a 2 motivi: a) il danno periprocedurale è spesso “inevitabile” in quanto correlato all’istrumentazione del cuore; b) la PCI è una procedura terapeutica, i cui benefici possono annullare la valenza prognostica negativa della necrosi miocardica da essa prodotta.
E’ difficile ipotizzare che un danno miocardico parcellare possa influenzare negativamente la sopravvivenza attraverso una riduzione della funzione sistolica globale, che è un evento estremamente raro. E’ più verosimile che si verifichi una instabilizzazione elettrica per anomalie multifocali della ripolarizzazione che possono causare l’insorgenza di aritmie maggiori. Dopo un evento ischemico un’aumentata dispersione della ripolarizzazione può essere responsabile di aritmie maggiori. A tale proposito, abbiamo recentemente correlato la sopravvivenza a lungo termine con le modifiche della dispersione del tratto QT (QTD) prima e dopo una PCI elettiva angiograficamente “efficace”. La QTD si riduce significativamente dopo PCI; una mancata riduzione della QTD è un predittore indipendente di mortalità a lungo termine. Il riscontro combinato di incremento della QTD e del CK-MB>URL stratifica in modo estremamente efficace un sottogruppo di pazienti ad alto rischio, che presentano una mortalità a 4 anni 6 volte superiore al resto della popolazione (14.6 vs. 2.4%, P<0.001)6.
La “Definizione Universale” di infarto miocardico – sottotipo 4a
La Società Europea di Cardiologia (ESC), l’American College of Cardiology (ACC), l’American Heart Association (AHA) e la Federazione Mondiale del Cuore (WHF) hanno prodotto nel 2007 un documento comune dal titolo “La definizione universale di Infarto Miocardico”7, con la finalità di uniformare l’infarto nei vari scenari clinici. L’infarto miocardico a seguito di PCI è stato definito come sottotipo 4a, identificabile per ogni aumento di marcatori di danno miocardico – sia cTn che CK-MB > 3 volte il valore superiore di riferimento (URL).
Tuttavia, mentre il significato clinico avverso di un incremento del CK-MB >3 volte URL dopo PCI è indubbio, l’attuale tendenza a sostituire il CK-MB con la cTn con la conseguente traslazione acritica degli stessi valori di soglia per porre diagnosi di infarto potrebbe causare un elevato numero di falsi positivi di infarto miocardico dopo PCI, con la percezione di un danno irreversibile che interferisca negativamente sull’esito a distanza8.
Lo studio MICASA e la coorte PCI nella valutazione del danno periprocedurale
Lo studio Myocardial Injury following Coronary Artery Surgery versus Angioplasty (MICASA) ha documentato mediante CMR una incidenza simile di infarto miocardico periprocedurale in pazienti affetti da malattia coronarica multivasale e sottoposti a PCI o a bypass aortocoronarico (BPAC)9. La coorte di pazienti sottoposti a PCI è oggetto del manoscritto pubblicato da Lim et al. sul J Am Coll Cardiol dell’8 febbraio u.s.10: 32 pazienti sono stati sottoposti a CMR prima della PCI, hanno ricevuto un monitoraggio dei marcatori di miocardiocitonecrosi (CK-MB e cTnI) ad 1, 6, 12 e 24 ore dopo la procedura ed hanno infine ripetuto CMR 7 gg dopo PCI. La CMR ha identificato un infarto periprocedurale in 5 pazienti (15%); l’identificazione dei pazienti con infarto periprocedurale tipo 4a è ovviamente stata significativamente diversa se veniva superato il valore di soglia di 3 volte URL utilizzando il CK-MB (15%) o la cTnI (82%).
Figura 2 (allegata)
I valori di CK-MB e cTnI sono stati rappresentati in scala logaritmica naturale. Le linee blu tratteggiate rappresentano i diversi valori di soglia di CK-MB e cTnI utilizzati per la diagnosi di infarto miocardico periprocedurale – tipo 4a (modificata da Lim)10.
I pallini rossi/blu evidenziano i pazienti nei quali la CMR rispettivamente ha/non ha posto diagnosi di infarto periprocedurale.
La figura 2 mostra una stretta correlazione lineare tra i picchi delle misurazioni dei due marcatori (r2=0,79, P<0,001). Utilizzando i valori soglia proposti dalla definizione universale, la sensibilità e la specificità del CK-MB è stata rispettivamente di 60% e 93%, mentre per la cTnI sono risultate 100% e del 22%. Le curve ROC per l’identificazione del danno periprocedurale sono risultate simili per i due marcatori: 0,985 per la cTnI, 0,970 per il CK-MB. Tale dato indica che la cTnI non è inferiore al CK-MB per l’identificazione della necrosi post-PCI, ma presenta una specificità estremamente scarsa se viene adottato il valore soglia proposto dalla definizione universale. Dalle stesse curve ROC gli autori desumono che i valori soglia “ottimali” dei due marcatori nell’identificazione di una necrosi periprocedurale visualizzabile alla CMR sono un CK-MB >9.5 µg/l (sensibilità 100%, specificità 93%), che è il doppio dell’URL di 4.8 µg/l ed una cTnI >2.4 µg/l (sensibilità 100%, specificità 93%), che rappresenta 40 volte l’URL di 0.06 µg/l.
Gli autori hanno eseguito anche un monitoraggio dei marcatori di infiammazione ed hanno documentato che i pazienti con necrosi periprocedurale mostravano rispetto alla restante popolazione un incremento di proteina C-reattiva (CRP) ed amiloide sierica A (SAA) dopo PCI, ma non di mieloperossidasi (MPO) o fattore di necrosi tumorale (TNF)-α.
Nella discussione gli autori evidenziano l’importanza che un’accurata identificazione dell’infarto miocardico dopo PCI abbia, con implicazioni che si estendono dalla pratica clinica alla epidemiologia dell’infarto, alla sfera psicosociale e non da ultimo alla ricerca. Non bisogna infatti dimenticare che numerosi studi che hanno testato strategie farmacologiche o interventistiche abbiano utilizzato il limite soglia della cTnI proposto dalla definizione universale dell’infarto come strumento per la stima del campione e la verifica dei risultati.
Nell’editoriale allo studio, Cindy Grines11 condivide i risultati dello studio di Lim, definendo “ragionevole” per la diagnosi di necrosi periprocedurale il valore soglia della cTnI di circa 2,7-3,0 µg/l, pur se sottolinea la necessità di validazione in studi clinici di ampia numerosità. Ricorda infatti che la diagnosi di necrosi periprocedurale alla CMR potrebbe addirittura sovrastimare il fenomeno biologico, in quanto il “delayed enhancement” va incontro nel tempo ad una ridimensionamento volumetrico (verosimilmente per la risoluzione dell’infiammazione ancillare).
Monitoraggio e gestione dei pazienti con necrosi periprocedurale
A sottolineare l’interesse attuale sull’argomento, nella prima settimana di febbraio è apparsa sul N Eng J Med una rassegna di Prasad12 sull’infarto miocardico dopo PCI. Gli autori, pur sottolineando la rilevanza prognostica del solo incremento del CK-MB >5 volte URL, propongono un algoritmo di monitoraggio dei pazienti che presentano un incremento dei marcatori di necrosi miocardica (sia CK-MB che cTn) dopo PCI. Viene raccomandato un monitoraggio delle cTn sia prima che dopo PCI (a 8 e 16 ore). I pazienti con incremento delle cTn prima della PCI devono essere trattati in accordo alle linee guida sulle SCA senza sopralivellamento del tratto ST (SCA-NSTE). I pazienti asintomatici in cui viene identificato un danno post-PCI dovrebbero essere controllati con ecocardiogramma per valutare la funzione ventricolare, avere un ricovero prolungato di almeno 1 giorno e ricevere un programma di prevenzione secondaria intensificato, in quanto rappresentano un sottogruppo a rischio più elevato.
Conclusioni
Nell’attesa che venga aggiornato il documento sulla definizione universale dell’infarto miocardico (previsto per il 2012) è consigliabile nella pratica clinica eseguire un monitoraggio di entrambi i marcatori (CK-MB e cTn) sia prima che dopo la PCI, avendo la cautela di osservare strettamente e ritardare la dimissione dei pazienti che presentano valori aumentati di tali indicatori dopo la PCI; parimenti, non è consigliabile utilizzare la sola cTn come strumento di monitoraggio della necrosi periprocedurale in ricerca clinica, in quanto la valenza prognostica di tale marcatore necessita ancora una validazione clinica.
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10. Lim CC, Van Gaal WJ, Testa L, et al. With the “universal definition,” measurement of creatine kinase-myocardial band rather than troponin allows more accurate diagnosis of periprocedural necrosis and infarction after coronary intervention. J Am Coll Cardiol 2011;57:653-61.
11. Grines CL, Dixon SR. A nail in the coffin of troponin measurements after percutaneous coronary intervention. J Am Coll Cardiol 2011;57:662-3.
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